09 dicembre 2006

La scuola e il lavoro e le colpe d'ognuno


Questa sera mi sono imbattuta in una discussione dai toni non pacati con uno studente della mia università, ingegnere anche lui ma di altro indirizzo. Lui sosteneva che l'università così com'è fatta è una perdita di tempo, che non prepara al mondo del lavoro, che i professori dovrebbero impegnarsi di più e che alla fine del quinquennio dovremmo avere sviluppato un senso critico, mentre in realtà abbiamo studiato passivamente per anni.
Inoltre, diceva di non sopportare chi studia senza impegno (io in primis).

L'università italiana ha una struttura vecchia che si basa sull'apprendimento passivo: il professore entra e spiega, mentre lo studente sta zitto e ascolta.
Negli USA le lezioni universitarie, pare, siano un ibrido tra un brainstorming e un case study.
Sicuramente l'approccio USA è più adatto a formare professionisti, mentre quello italiano è appropriato a studiosi e cultori della materia. Sta di fatto che anche in Italia gli studenti vanno all'università per trovare lavoro, molti pochi per fare ricerca.

La critica agli studenti pigri è ovviamente valida, ma non essendoci in Italia un'impostazione meritocratica, gli studenti non sono incentivati a dare sempre il massimo. Lo stimolo è necessario anche negli animali: i castori non perderebbero giorni a costruire dighe se non ne avessero bisogno, gli uccelli non migrerebbero per migliaia di chilometri per sopravvivere all'inverno, i ghepardi non correrrebero a 50 km/h se non fosse l'unico modo per acchiappare una preda.

Infine, è vero che l'università italiana, così com'è, non prepara in maniera adeguata al mondo del lavoro. Però ritengo che qualsiasi corso studi differisca dal mondo lavorativo. Anche il migliore ti lascia comunque impreparato a tutti i casi che nella vita lavorativa capiteranno.

Dopo queste considerazioni appare evidente che l'università è l'anticamera del riscaldamento prima della partita, mentre il lavoro è la partita vera. Alcuni miei compagni si spremono come dei pazzi per ottenere un 30, arrivando a togliere dal piano di studi un esame marginale che può fornire solo un 28. Della mia annata e del mio corso, 7 su 30 alunni usciranno con il massimo. Se moltiplichiamo questi 7 per il numero di corsi di laurea di ingegneria di Pavia, e per il numero di corsi di laurea di ingegneria italiani, otteniamo che ogni anno ci sono tra i 500 e i 1000 studenti laureati in ingegneria con il massimo dei voti.

Una concorrenza impressionante e soprattutto disarmante. Come è possibile pensare che basti puntare tutto sui voti per distinguersi, allora?
Nel lavoro non conta solo il bagaglio nozionistico, contano anche cose che non si misurano con un numero a due cifre compreso tra 18 e 30. Conta l'intelligenza - e prendere 30 non vuol dire essere intelligenti ma solo avere studiato; conta l'apparenza - e vestirsi come in terza media con pile e nike non aiuta; contano le relazioni sociali - e passare i propri 20 anni a parlare di studio ed esami non legherà se non con chi ha la tua stessa base, cioè chi non avrà bisogno di assumerti; contano le lingue - per moltiplicare i contatti, le fonti e i possibili impieghi; contano tante cose per cui non esistono corsi specifici nè voti nè scuole.

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